©Vita Nostra 2001, anno 41, n. 04, Domenica 28 gennaio 2001, p. 6

- Traduzione in sardo di Lc 5,1-11
- Commento di traduzione: i modi di dire
 

Luca 5,1-11
Piscadoris piscaus

Traduzione di Antioco e Paolo Ghiani

1 Una borta, in s'interis chi sa genti megàt de dd'apretai po ascurtai su fueddu de Deus e issu fiat strantaxu a s'oru de su lagu de Ghennesarèt, 2 est sussediu ca at biu duas barcas chi fiant in s'oru de su lagu, e is piscadoris ndi fiant abasciaus e fiant sciacuendi is arretzas. 3 Tandus nc'est artziau a una de is barcas, a icussa chi fiat de Simoni, e dd'at pediu de nci stresiai unu pagheddu de terra. Si fiat setziu in sa barca e de innì sighiat a donai imparu a totu sa genti.

4 E candu at acabau de fueddai, at nau a Simoni: "Stresianci aillargu e getaìnci is arretzas de bosatrus po sa pisca". 5 E Simoni, arrespundendi, dd'at nau: "Su maistu, si seus fadiaus a totu noti e no eus cassau nudda; ma feti ca mi ddu naras tui nci ap'a getai is arretzas".

6. Nci dd'as ant getadas e ant inserrau una cantidai aici manna de pisci, e is arretzas fiant po si scorriai. 7 Tandus ant fatu acinnidus a is cumpangius chi fiant in s'atra barca po benni a ddus agiudai. E funt bennius e ant prenu totus is duas barcas tantis ca fiant po nci afungai.

8 Candu at biu sa cosa, Simoni Perdu si nc'est getau a genugus de Gesus, narendi: "Lassamì stai, Sennori, ca seu tropu pecadori". 9 Ca nd'iat boddiu unu spantu mannu, issu e totus cussus chi fiant cun issu, po sa pisca de is piscis chi iant cassau. 10 E su propiu Giacu e Giuanni fillus de Zebedeu, chi fiant sotzus de Simoni. E Gesus at nau a Simoni: "Non timas, ca de imoi innantis as a essiri andendi a pisca de ominis".

11 Tandus nci ant torrau is barcas a terra, ant lassau donnia cosa, e ant sodigau cun issu.

Commento di traduzione: i modi di dire
Luca, stilista e teologo. Un modo di dire e un modo di pensare.

Un primo problema di traduzione caratteristico di questa pagina riguarda proprio un modo di dire che troviamo all’inizio del racconto. Si tratta dell’espressione egeneto de, oppure kai egeneto (“fu dunque che”, “e fu che”), unita ad una determinazione subordinata di tempo. Per quanto riguarda la forma, Luca la usa in tre modi diversi, ed appare che non si tratta di un uso casuale, ma di una intenzione precisa di adattare il suo stile al contesto ebraico o greco del racconto e all’impressione più o meno antica che vuole trasmettere al lettore.

(1) In un primo uso, l’espressione è seguita direttamente da un verbo finito. In Lc 2,6 letteralmente leggiamo: “e fu, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto”: è la costruzione tipica del greco della Settanta.

(2) In un secondo uso, l’espressione è seguita da un verbo introdotto dalla congiunzione kai. In 9,51 leggiamo: “Fu dunque che, mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, ed egli si diresse decisamente verso Gerusalemme”: è la costruzione tipica dell’ebraico.

(3) In un terzo uso, l’espressione è seguita da una proposizione infinitiva. In At 16,16 si dice letteralmente: “Fu dunque, mentre andavano alla preghiera, venire verso di noi una giovane schiava…”: è la costruzione greca. 

Significativamente, nel vangelo troviamo 22 volte l’uso semitizzante della Settanta,  11 volte l’uso semitico dell’ebraico, e solo 5 volte l’uso greco, mentre negli Atti degli Apostoli troviamo cinque volte l’uso greco, e mai l’uso ebraico o quello semitizzante della Settanta.

Per quanto riguarda le funzioni, se ne possono indicare cinque:

1) Introduzione (24 volte): a) come inizio del racconto vero e proprio o descrizione del fatto che determina ciò che segue (2,1; 3,21; 6,1; 7,11; 8,1,11; 9,28.51; 10,38 nel Textus Receptus; 11,1.27; 18,35; 20,1); b) come descrizione delle circostanze o dello sfondo della narrazione (5,1.12.17; 6,6.12; 8,40 nel Textus Receptus; 9,18.37; 14,1; 17,11).

2) Inizio di un racconto dopo una precedente introduzione (5 volte): 1,8.59; 11,14; 19,29; 24,15;

3) Punto culminante di una narrazione (7 volte): 1,41; 2,6.46; 17,14; 19,15; 24,4.30.51;

4) Transizione in una narrazione: 2,15; 9,33; 16,22;

5) Conclusione di una narrazione: 1,23.

Come tradurre, se si deve tradurre, questa espressione semitizzante o grecizzante di Luca? Come sempre, dipende dal tipo di traduzione che si sta facendo. Una traduzione a equivalenza formale, probabilmente, si porrà il problema di come rendere lo stile “arcaicizzante” di Luca, anche forse a scapito della naturalezza della lingua di arrivo. Una traduzione a equivalenza dinamica si preoccuperà invece di rendere la funzione dell’espressione lucana in una lingua naturale e scorrevole. Di per sé, né l’una né l’altra traduzione si sentiranno dunque obbligate a dare una traduzione “letterale” delle frasi “egeneto”, a meno che nella lingua di arrivo siano disponibili delle espressioni simili usate con la medesima funzione semantica.

Vediamo il nostro caso concreto di 5,1. Esso rientra nel secondo uso molto ebraico (con verbo introdotto dalla congiunzione kai) e nella funzione di descrizione delle circostanze iniziali di un racconto. Le circostanze iniziali sono che Gesù si trova sulle rive del lago mentre (circostanza di tempo) molta gente lo preme da ogni parte per ascoltare la sua parola. A questo punto Gesù vede le due barche con i pescatori che ne sono scesi, e comincia il racconto vero e proprio.

Ora osserviamo alcune traduzioni disponibili e facciamo delle nostre osservazioni. La traduzione di Cuccu 1997 dice: A pùstis est sussédiu chi sa gènti appillendisì appìzzus de Ìssu po ascuttài su fuéddu de Déus, Ìssu s’èsti póstu in s’óru de su làgu de Genèsaret 2 e hàdi bìstu dúas bàrcas chi staìanta in s’óru de su làgu. Insàras is piscadòris, cumènti ndi fíanta calàus, sciacquànta is arrèzzas insóru. 3 Insàras, a pùstis chi èsti arziàu in una de is barcas…”. Questa traduzione, a parte la solita pesantezza dell’accentazione, si caratterizza per un tentativo di letteralità formale, purtroppo anche a scapito della naturalezza della lingua sarda. Tuttavia, la letteralità si ferma alla resa dei singoli lessemi, senza tener conto del “discorso” nel suo insieme. In breve, per quanto riguarda il nostro problema, si può dire che in questa traduzione non appare più la distinzione del discorso lucano fra introduzione circostanziale del racconto e inizio vero e proprio del racconto. Ciò dipende anzitutto dall’aver introdotto con “a pùstis est sussédiu” un collegamento all’indietro che non fa parte della funzione introduttiva (in effetti, al v. 12 Cuccu dirà semplicemente “e èsti sussédiu in su mentris…”, ciò che pone il problema della omogeneità di una traduzione); in secondo luogo, dall’aver introdotto ben due volte l’avverbio “insàras” per tradurre la particella greca de, che qui ha un valore continuativo, mentre il sardo “insaras” implica invece una certa “rottura” in ciò che succede. Tale avverbio sarà usato ancora una terza volta subito dopo (“Insàras, a pùstis chi sèsti [sic!] sezziu, dàe sa barca imparàdaa sa genti”), e sempre per tradurre la particella de, il cui aspetto ancora continuativo è espresso anche dall’imperfetto “insegnava”, nel senso di “continuava ad insegnare” (come stava facendo prima, ma con la ressa attorno). L’effetto generale è di pesantezza e di mancanza di organizzazione narrativa. Un effetto, a dir il vero, poco “lucano’.

La traduzione del Vargiu segue da vicino le scelte di equivalenza dinamica della traduzione Ldc-Abu:   1 Una dia Gesús s'agatàt in is partis de su lagu de Genèsaret. Fut stantàrgiu e sa genti si stringiat acanta de issu po podi ascurtai su fuedhu de Deus. 2 Iat biu tandu, lassadas in s'oru de s'àcua, duas barcas sbuidas: is piscadoris, calaus a terra, fuant sciacuendu sa retza insoru. 3 Gesús fut artziau in d'una de custas barcas, in sa chi aparteniat a Simoni, e dh'iat pregau de tocai de arremu po si stesiai unu pagu de sa terra. Apustis si fut sétziu in sa barca e si fut postu a istruiri a sa genti.

La caratteristica di questa traduzione è che segue la suddivisione dell’unica frase di Luca in più frasi coordinate, con l’intenzione di facilitare la lettura e l’ascolto. A differenza del Cuccu, qui la distinzione tra introduzione e inizio del racconto è resa con l’introduzione, al v. 2, dell’avverbio “tandus”, di per sé non presente in greco’. Tuttavia anche in questa traduzione, l’introduzione di “a pustis” al v. 3 per rendere un participio aoristo semplicemente circostanziale introduce uno stacco che contrasta con gli aspetti continuativi sia di alcuni fattori grammaticali sia del contesto discorsivo: Gesù riprende a fare ciò che stava già facendo, ma in una situazione più adatta e che darà l’occasione del seguito degli avvenimenti. Si noterà, infatti, come Luca non è per niente interessato al contenuto dell’insegnamento di Gesù, ma è interessato invece a situare la sua parola in un contesto metaforico di “pesca di uomini”: Gesù lancia dalla barca la sua parola, così come il pescatore dalla barca lancia la sua rete. Da questo punto di vista, la traduzione del Vargiu, alla ricerca, dietro il suo modello dinamico,  di una più naturale espressione nella lingua di arrivo, trasferisce la menzione della barca all’azione del “sedersi” (“si fut setziu in sa barca”), perdendo però quello che era l’interesse finale di Luca: Gesù dalla barca insegnava alle moltitudini. La naturalezza della lingua deve essere raggiunta, ma non a scapito degli aspetti più pertinenti del testo.

A questo punto abbiamo tutti gli elementi per rileggere e comprendere le scelte sottostanti la traduzione proposta sul nostro giornale: “1 Una borta, in s'interis chi sa genti megàt de dd'apretai po ascurtai su fueddu de Deus e issu fiat strantaxu a s'oru de su lagu de Ghennesarèt, 2 est sussediu ca at biu duas barcas chi fiant in s'oru de su lagu, e is piscadoris ndi fiant abasciaus e fiant sciacuendi is arretzas. 3 Tandus nc'est artziau a una de is barcas, a icussa chi fiat de Simoni, e dd'at pediu de nci stresiai unu pagheddu de terra. Si fiat setziu in sa barca e de innì sighiat a donai imparu a totu sa genti”.

Un secondo problema riguarda invece un concetto teologico. Per la tendenza a trovare scorciatoie esortative, siamo abituati a prendere la risposta di Pietro a Gesù “sulla tua parola getterò le reti” come “modello di risposta vocazionale”. Per la stessa tendenza, siamo abituati a presentare anche la successiva preghiera di Pietro “allontantati da me che sono un uomo peccatore” come un modello di umiltà. Tuttavia, qualche dubbio sembra legittimo. Partiamo dalla preghiera. Nel greco, l’espressione usata da Luca “esci da me” è sorprendentemente identica a quella che egli usa in occasione degli esorcismi di 4,35 “esci da costui… uscì da lui” e di 4,41 “da molti uscivano demoni…”. È curioso notare come anche chi afferma di voler tradurre letteralmente, in realtà non lo fa con la coerenza linguistica che ci si aspetterebbe dalle sue dichiarazioni: Cuccu che in 4,35 ha “béssi a foras”, qui ha invece il solito “Bài attésu dè (sic!) mèi”, mentre ci saremmo aspettati “Béssi a foras de mèi”.

Se si tiene conto dell’uso identico di Luca, è giocoforza rileggere la prima risposta di Pietro. Egli ha fatto presente che, ragionando da buon pescatore, sa che è completamente assurdo uscire a pescare proprio allora, dopo una notte di inutile fatica. Se lo fa, non lo fa per ingenuità di inesperto, ma “solo” per il “comando”, per l’ “ordine” (rema,  in greco), di questo maestro che egli ha visto usare la sua barca per parlare alla gente in modo molto più efficace di come egli stesso la usasse per pescare i pesci. Pietro, in definitiva, esegue l’ordine di Gesù, non perché pensa di recuperare la fatica inutile della notte, ma solo perché si dichiara in qualche modo “preso” dalla parola di questo “maestro-pescatore” di folle. Nel momento in cui Pietro e i suoi  soci si vedono coinvolti in una storia più grande di loro, e in cui il titolo di “Signore” usato per Gesù suggerisce già il senso delle “meraviglie” divine, Pietro chiede che cessi questa specie di stato di “possesso” in cui si sono trovati ad agire per tornare al loro stato conosciuto e familiare di gente esposta alla quotidianità del peccato e delle fatiche inutili. In breve, meglio altre notti senza niente, che vivere in un sogno al di là dei propri limiti. La risposta di Gesù invita Pietro a superare una tale paura, sostituisce la gente ai pesci, ma dice anche in fin dei conti che le storie meravigliose dei pesci finiscono lì. Se vi sembra che Gesù stia promettendo altre pesche miracolose ad un pescatore “fuori di sé”, forse avete una storia diversa da quella di Pietro o forse non vi ricordate come continua nel vangelo la storia di Pietro. Se per un momento Pietro ha agito consapevolmente come “fuori di sé”, adesso mostra al contrario di essere completamente “in sé” e invita Gesù : “Lassamì stai, ca seu troppu peccatori”. Forse, come Pietro, dobbiamo ancora capire che cosa voglia dire che Gesù pesca dalle nostre barche vuote.